Idee e provoc-azioni da un cervello rientrato per fare di Arezzo una città intelligente.
La città natale è un po’ come la mamma (italiana).
Spesso ci lega a lei un frustrante rapporto d’amore e odio.
Se sei nato ad Arezzo poi, potresti sfiorare il disturbo bipolare.
Momenti di entusiasmo intervallano episodi di disperazione.
Un sinusoide emozionale. Io non sono certe indenne.
Arezzo l’ho lasciata a diciotto anni.
E dopo diciotto anni ho deciso di tornare.
Al sentirsi confidare ciò i miei amici stranieri mi dicono “sounds good”, gli aretini mi dicono “te s’è scemo”.
Tra questi due estremi, gli altri expat italiani del mio esilio: tra loro c’è chi mi definisce coraggioso, chi non si pronuncia e curioso segue la mia traiettoria a boomerang.
Io mi definisco un cervello fuggito che tenta il rientro (e peccato che non ci sia una strategia politica nazionale per investire su di noi e farci tornare a casa).
Negli ultimi diciotto anni ho viaggiato, lavorato, imparato.
Ho tessuto e disfatto identità. Ho studiato varie lingue e imparato a mediare tra le culture. Ho insegnato italiano ai polacchi e aiutato gli italiani a fare affari lontano da casa.
Ho interpretato discorsi di ministri e capi di stato, scienziati, accademici e visionari.
Ho aiutati gli eurodeputati a capire e a farsi capire a Bruxelles, Strasburgo e dovunque le mie abilità di comunicatore potessero essere utili. Ho imparato a fare il tofu in Indonesia, ho meditato con maestri tibetani, ho riparato serre e insegnato geografia ai bambini in Nepal. Diciotto anni di peregrinazioni, che continuano.
E ogni volta che passavo di qua, rieccola quella che io chiamo la sindrome di Catullo: odi et amo (Arretium). Il decorso è pressoché immutabile.
Un paio di giorni di calore familiare, l’estasi della Toscana da cartolina, la gioia di una ritrovata semplicità di vivere, il pan col pomodoro, la comodità di strade piccole, pittoresche e silenziose, una manciata d’ore confuso tra i turisti francesi e i ragazzi americani in cima al Corso, di cui condividi gli “wow, amazing” e i “que c’est joli”.
Che bello essere a casa.
Eppure, al terzo giorno, già l’idillio s’inclina.
L’isolamento nella periferia aretina del senza-macchina, l’assenza inspiegabile di un cinema in centro, i discorsi allucinanti del tabaccaio che inveisce contro gli immigrati, i soliti, intramontabili, teatralissimi drammi familiari.
Al tramonto del giorno 3 hai già il dito sull’app di Skyscanner.
Rifai lo zaino, non prima di essere passato dal supermercato a fare le solite scorte di cacio sottovuoto e Lavazza.
E allora perché tornare? Proprio io, tanto figlio di Arezzo quanto di Cracovia, Bruxelles, Lisbona, Parigi, Istanbul o Kathmandu.
Per ora non lo so.
Ma ho un’intuizione: di poter portare qua un po’ di novità, innovazione, visioni.
E consapevolezza.
Soprattutto consapevolezza.
Dal mio nuovo rifugio (in via Cavour, sennò come faccio senza macchina?) osservo la mia nuova vecchia città, cogito, fotografo, azzardo idee per migliorarla.
Lo faccio scrivendo, parlando con la gente, prendendo il trenino del Casentino, ascoltando gli stranieri che commentano la città, frequentando i nuovi aretini, tutti a me estranei, molti stranieri. Perché una cosa ve la dico già: non solo io, anche Arezzo è cambiata, in diciotto anni.
Ma se rimane il solito buco è perché l’aretino medio ha paura del cambiamento.
Refrattario al nuovo quanto le pietre di un altoforno.
Da qui allora l’idea di scrivere su L’Ortica, per proporre, assieme ad altre voci di questa testata un po’ fuori dal mainstream, uno sguardo fresco sulla città.
Per far vedere agli aretini quel che non vogliono vedere, quel che c’è da fare, ma anche quel che di buono hanno già in casa.
In ogni articolo, una gentile provoc-azione, in immagini e parole.
Lo faccio con il beneficio di chi ha vissuto qui e poi altrove, di chi confronta, osserva e vede, complice una presenza intermittente, l’evoluzione lenta di questa città che sonnecchia.
Svegliati, Arezzo!
C’è tanto da fare per rendere questa una smart city, una città intelligente.
È anche per me una fase nuova, un nuovo viaggio che inizia.
E chissà che non si realizzi il verso di una poesia giovanile “E se il senso del viaggio/fosse proprio il ritorno?”
Seguitemi, se vi va.
E buon risveglio!