ITALICUS
È duro saper fare qualcosa che praticamente non serve. Fatta una poesia, la poesia «sta lì», è come un cara battuto dalla macchina a insaputa del suo autdre… Eppure, in questo Italicus (che proviene anche da Italo, nome di mio padre), ho espresso esigenze che mi sono peculiari: il desiderio di superare la realtà nelle dimensioni del sogno, la ricerca di un linguaggio suggestivo, il confronto diretto con le vicende della cronaca e della storia (il poeta, però, non si sposa con tutto: soprattutto, non divorzierà mai dalla sua poesia: e questo è il più sottile «gioco dell’amore») perché la storia è umanità o non è niente.
LO SPOSO
Diciotto chilometri e mezzo era lunga (fra le più lunghe d’Europa) la galleria
che sbuca a San Benedetto Val di Sambro.
Ricordo ho di un ponte perfe tto,
che vedo dal treno , e sopra ci vanno le macchine in corsa
(da sotto, parevano in cielo), per dove cammina Gesù.
C’è il sole che batte, riflesso dai finestrini del treno.
Ricordo che faccio il soldato.
Che vado a Bologna.
Che sono studente.
Studiavo a Bologna.
In treno, pensavo:
«… Finito il soldato, mi sposo».
Ricordo che il ponte fu fatto di un arco.
Ha solo una luce . Perfetta.
Lì sopra, le macchi_ne in corsa
parevano in cielo. E il ponte più bello di tutta l’autostrada del Sole.
Lo vedo che ancora non’ è neanche fatto…
Incassano allora il cemento coi ferri , che dopo lo libera tutto. Il ponte si vede dal treno. Mi sono sposato.
Non trovo chi scese a Bologna .
C’è stato uno scoppio .
L’intero convoglio, che andò per inerzia , appena raggiunse
San Benedetto Val di Sambro; e qui si è fermato,
a questa stazione: un’alt ra, nel mezzo, aveva un camino
che porta la gente su in alto, in loco, sui campi, all’aperto ,
con zelo, per dove cammina Gesù.
Scendendo nel centro della galleria
di San Benedetto Val di Sambro… trapassata che sia,
(conto i giorni) sporgevo col capo dal vagone, con tutta la testa .
Il 4 agosto qui l’odio fascista combinava una strage
che balugina come l’effetto di vedere le verghe bagnate .
«ITALICUS»
Mi desto osservando che un astro era in cielo stamani, più grande degli altri.
… È Venere, dunque? Confermo notizia leggendo che Venere forma le ombre dei corpi…
procura, sorgend o, le ombre.
Brillava quest’ astro , che parve un incendio . Mi parve. Incendio non grosso, sui monti.
Saranno le quattro del 5 di agosto… le quattro o le cinque.
Dapprima mi parve una stella, poi un fuoco.
Mi dico: non credo che esista un sole a quest’ora;
un sole talmente vicino
da dire che appaia sui corpi, facendone l’ombra. Eppure era vero…
Un fuoco non era, di boschi.
Ma luce di sole, riflessa.
È ilcinquediago”o,nonsono mai a letto da solo; c’è sempre
la moglie al mio fianco, nel letto…
Da solo mi desto, guardando
se fuori c’è fresco.
E osservo la stella che ho detto.
Che appare nell’Est.
È il posto del sole che vedo.
Credevo che fosse già giorno…
Infatti, c’è l’alba.
E il cielo s’imbianca talmente, da reggere solo quel fuoco.
Di fuori, spariscono stelle… le tante.
E il cielo rosseggia, poi dopo. L’aurora non tarda a venire.
Resiste la stella.
Non vedo se il sole cancella la luce riflessa dal corpo che dissi era Venere.
Dormo.
Riprendo a dormire, da solo.
La moglie è rimasta alla Verna.
E sono qui a Arezzo, che è tutta pervasa da incendi.
Alle due: tra l’una e le due del giornò·trascorso – mangiato – si vede venire una nube
di cenere densa che offusca dovunque sia il sole, e genera un panico inerte.
Qualcuno dirà «terremoto».
L’ha in mente.
È il sole oscurato
che inquieta; non genera sonno.
Dormire alle due, che ho mangiato, è uno sconcio.
Non dormo.
La nube di fumo, di cenere sparsa da incendio deposita cenere in terra…
le strade riduce a budelli, a viscere calde di bestia.
Il sole si oscura.
Tremando, una donna racconta che crede che sia il terremoto.
Non piangono bestie.
Non è un terremoto.
Neppure un’eclisse.
È un incendio che avvolge di fiamme quei boschi che vanno da Arezzo in val d’Ambra.
E siamo affogati di fumo.
Qui giunge la cenere, in nubi.
Io penso, lasciando la Verna:
<<. •• È il tempo che cambia».
Ma niente.
La nube che appare è non nube.
L’oscuro che appare è non acqua.
È cenere, invece, che cade.
Si sconta, noi, qualche peccato? …
Peccati non nostri?
Non credo.
E, verso le nove, mi trovo
in piazza Sa nt’J acopo. (Le nove di sera).
Ho accanto persone che sono
la gente.
Il primo che trovo è il Sereni.
Mi dice: «Non parlo».
Talmente la gola gli è secca, che dice: «Ho un nodo alla gola».
E tutto è centrato, lì in piazza.
Il sindaco dice: «Bisogna chiamare i fascisti per quello che sono: fascisti».
E dicono gente trovata carbone nel treno.
Dicevano un bimbo.
E dicono sono le bombe fasciste.
… Che è vero!
«Possibile ancora che sono i fascisti?», chiedevo al Sereni.
Lì in piazza, parlava la gente modesta, che vince .
BOLOGNA
Rividi Bologna .
Quadrata.
Rotonda.
In piazza Maggiore.
Nell’angolo dove, parlando col padre, ne parlo col figlio, che ha gli occhi suoi blu.
Restammo seduti a un angolo, in piazza.
Dov’era un caffè.
Guardavo la chiesa.
Guardavo la luna, di notte.
Guardavo un segreto pinnacolo verde.
Rotondo.
Una cupola di chiesa nascosta sul lato sinistro.
Guardavo in facciata la parte incompiuta di San Petronio.
Guardavo, di notte, spettacolo immenso di piazza.
Di luna.
E d’un orologio.
Quadrante che sta, passato Re Enzo, in cima a una torre .
Ci sono, nell’angolo opposto, le foto di quelli
che furono uccisi dai nazifascisti.
Che coprono quasi un’inte ra parete… Almeno metà.
E tutto il palazzo è Bologna.
La piazza Maggiore.
Coi portici (fuga) del Pavaglione.
La fuga di portici da dove correvo, studente, da piazza a una strada…
e dopo una piazza, e dopo una strada, coprendomi quasi coi passi.
Un giorno, ne parlo col padre.
Adesso col figlio.
Portavo mia moglie, a Bologna.
L’attesi ad un treno.
Andavo a dormire
nel piccolo albergo che fa un angolo al grande comune, di fianco.
E vedo spettacolo immenso…
Mi sono talmente commosso a credere ancora Bologna la stessa città.
Non sono mai stato convinto che fossero bare (la bianca, di un bimbo)
le dodici bare disposte , in piazza Maggiore, sopra al sagrato di San Petronio.
Da mezzo alla piazza, parevano, invece, l’intera città.
Ricordo di un giorno di inverno.
Che avevo una qualche febbretta. Che, dopo, divenne un febbrone, nel giro di qualche giornata.
Ricordo che scrissi a ragazza che adesso è mia moglie.
Che stavo a Bologna.
Le scrissi che fuori c’è neve.
Cadevano i fiocchi.
I rumori non giungono più dalla strada, dov’era che passa anche il tram.
D’Azeglio, la via che mi porta a San Michele in Bosco, cancella ai pedoni i passi che fanno, cadendo altra neve.
E tutto è uno strato di bianco… Con febbre, rincorsi un gran tonfo.
Cadevo, battendo la testa, alzandomi proprio di notte.
E avevo un febbrone, che dicono febbre da cavallo.
Battendo la nuca , rinvenni.
Poi giunse l’estate, su stessa collina di San Michele in Bosco, col fitto di tanti colombi.
E un bimbo era scosso, nel letto, in preda a un attacco epilettico… il bimbo, che vola .
E abbaglia, talmente era mosso, su tutta collina, dal verde.
Rossastre, le case, più sotto.
Domando:<<. •• Cos’è che è accaduto?»·. «… Il fascismo è stato abbattuto, per sempre».
Filippo NIBBI