La “Dinda”, quella che mi vide uscire dal ventre della mi’ mamma, arrivava già quando ero poco più grande a farci le iniezioni… Arrivava con la sua bici, con i parafanghi dietro che coprivano la ruota fino al mozzo. Appoggiava il mezzo al cancelletto—grigia la bici, di marca Cormini, che aveva pure il bollo, e grigio il cancelletto di via Crispi—con un gonnone grigio, claudicante, la mi’ levatrice saliva a casa nostra…
La bollitura
In quel tegamino di alluminio pieno d’acqua, con la levetta per la chiusura ermetica del coperchio, ago, siringa e il suo stantuffo venivano bolliti… Avrei voluto che questo procedimento fosse durato per un’eternità, ma era il proseguo delle cure che avevo iniziato in campagna. Qui veniva a punturarmi la Bruna, un’infermiera che poi si sposò con un capo cellula e si trasferì a Firenze. (Il capo cellula era colui che dirigeva una sezione del PCI.) Il fidanzato della Bruna veniva per la battitura e al collo portava una grossa catena con la falce e il martello come pendente, ma non mangiava i bambini, anzi, era scherzoso…
Cosa era successo? Nella discesa da casa nostra al Vignale, andando sempre di corsa, caddi su un sasso che mi aprì il ginocchio fino quasi all’osso. La ferita era talmente profonda che mi fece diventare giallo, con febbre altissima: era itterizia da lesione, per la paura!!?
Non vi dico le fiale di vitamina B12 che mi sono dovuto fare—grosse, che sembravano bottiglie—dentro quel vetro marroncino. L’unica soddisfazione era che, finita una scatola, mi rimaneva il piccolo seghetto di metallo. Tuttavia, non ho mai pianto. Sì, devo ammetterlo: mordevo il guanciale, prima durante il massaggino con il cotone imbevuto d’alcol e poi durante l’iniezione.
Dopo qualche anno vennero poi le supposte: ve ne erano alcune che si scioglievano a guardarle, o che le rifacevo subito, data quella sensazione di umidiccio… altre, durissime!!
Meglio la puntura!!!