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martedì, Aprile 29, 2025
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Il telefono: compagnia o prigione?

Il telefono è il nostro legame con il mondo, ma può trasformarsi in una gabbia invisibile

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Il telefono è una presenza costante nelle nostre vite. Squilla, vibra, ci richiama all’attenzione. Per alcuni è uno strumento di lavoro, per altri un passatempo, per altri ancora una necessità. Ma c’è anche chi lo usa come un’àncora, un filo sottile che lo lega al mondo e gli impedisce di sprofondare nel silenzio.

Chiunque abbia accanto una persona sola sa quanto il telefono possa diventare il suo compagno più fedele. La chiamata del mattino, quella del pomeriggio, il saluto della sera. E non si tratta solo di scambi veloci, di informazioni essenziali. No, per alcuni il telefono diventa un canale ininterrotto di parole. Racconti, ricordi, pensieri che si intrecciano senza pause, ma può essere anche autentico piacere come quando chiamo, o mi chiama mia cognata ultimogenita di dieci fratelli. Siamo capaci di stare anche tre ore al telefono di notte, quando tutto intorno a noi tace per parlare di tantissimi argomenti. Lei è molto ferrata in geopolitica mondiale, segue tanti siti accreditati, ascolta molte conferenze e poi mi fa un ottima sintesi che alla prima occasione approfondisco. Le voglio molto bene! Ma se l’interlocutore non risponde al nostro “sentire” diventa un cilicio rimanere in ascolto e noi delle crocerossine😅😂🤣

Chi sta dall’altra parte…Ascolta. Con affetto, con pazienza, ma anche con una crescente fatica. Perché ascoltare è un atto d’amore, ma può anche diventare un peso. Non perché non si voglia dare attenzione, ma perché l’ascolto, quando è costante e unilaterale, diventa estenuante. È come una conversazione che non finisce mai, un fiume di parole che riempie ogni spazio, senza lasciare respiro.

Mi sono chiesta più volte cosa ci sia dietro questa necessità di parlare così tanto. La paura del silenzio? Il bisogno di sentirsi importanti? La certezza che dall’altra parte ci sia qualcuno che ascolta, anche senza dire nulla? Probabilmente tutto questo insieme. Ma mi chiedo anche quanto il telefono, usato in questo modo, riesca davvero a colmare la solitudine.

Parlare tanto significa davvero sentirsi meno soli? O è solo un modo per mascherare quel vuoto che, una volta chiusa la chiamata, torna a farsi sentire più forte di prima?

Viviamo in un’epoca in cui siamo costantemente connessi, eppure mai così distanti. Mandiamo messaggi, facciamo videochiamate, riempiamo i social di contenuti, ma spesso manca la vera presenza. Ci siamo abituati a comunicare senza guardarci negli occhi, a sentirci vicini senza sfiorarci. E forse, per chi è solo, il telefono è l’ultimo appiglio a un mondo che sembra correre troppo veloce, senza fermarsi mai ad ascoltare.

Ma l’ascolto è una cosa preziosa. Non è solo sentire parole, è accogliere, comprendere, dare valore a chi parla. Però anche l’ascoltatore ha bisogno di essere ascoltato. E se una conversazione diventa solo un monologo, qualcosa si rompe. L’equilibrio si spezza.

Mi sono chiesta molte volte come si possa trovare un punto d’incontro. Come si possa essere presenti senza sentirsi intrappolati. Come si possa dire “ora basta” senza ferire. E forse la risposta è nel modo in cui costruiamo le relazioni. Nella capacità di far capire, con dolcezza, che il silenzio non è un nemico. Che la presenza non si misura in minuti al telefono, ma nella qualità del tempo condiviso.

Ci sono silenzi che fanno male, quelli dell’indifferenza, dell’assenza, della distanza imposta. Ma ci sono anche silenzi che nutrono, che uniscono, che parlano senza bisogno di parole. A volte, stare accanto a qualcuno senza dire nulla è più potente di mille discorsi.

E allora forse il punto non è il telefono in sé, ma l’uso che ne facciamo. Se diventa una prigione, qualcosa non sta funzionando. Se ci fa sentire vicini, se crea un vero dialogo, allora sì, è un ponte tra le persone. Sta a noi capire quando serve una parola in più e quando, invece, è meglio lasciare spazio a un abbraccio, a uno sguardo, a una presenza silenziosa ma vera.

S.S.C.

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Sabina Sabrina Crivellari
Sabina Sabrina Crivellari
Sabina Sabrina Crivellari, nata a Milano nel 1955, si trasferisce a Melzo nel 1990. Membro del “GAM” dal 1997, partecipa a mostre locali esplorando diverse tecniche artistiche: ritratti a matita, dipinti a olio, sculture in argilla e quadri in resina. Ha fondato una galleria d’arte e una scuola di cake design. Il quotidiano Il Giorno ha descritto via Napoli 37 come “la Montmartre di Melzo”. Attualmente, si dedica principalmente alla scrittura.
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