“Partiamo, si va a giocare contro Piazza Vasari!”
Così dicevano Gianfranco e gli altri più grandi.
All’epoca non esistevano buste di plastica, solo sacchi alpini dell’ultima guerra, rabberciati o riciclati. Molti giocavano con le scarpe e i pantaloni di tutti i giorni. Solo il “Cata” aveva una borsa nera cucita da sua madre, insieme ai guanti, alla maglia da portiere e ai pantaloni di una tuta. Ma lui era il portiere avversario, ed era un “oriundo”, perché abitava vicino al seminario. Anche noi avevamo il nostro oriundo: il Cantaloni, che viveva in via XX Settembre.
Boncompagni, che anni dopo sarebbe andato alla Juventus ai tempi di Nìccolè, era la nostra punta di diamante. Ma la nostra squadra giocava senza un vero centrocampo: Morbidelli, Minozzi e tutti gli altri stavano sempre in avanti. Io ero l’unico a restare in difesa contro le loro due ali veloci, Casagli e Lovari, e il loro centravanti Marcaioli.
In porta avevamo il “Bracala”, il mio amico Maurizio Bianconi, perfettamente attrezzato con una muta da portiere: pantaloni imbottiti, guanti gommati, ginocchiere e persino un cappellino. Ma nulla potevamo fare contro i loro rapidi contropiedi. Inoltre, a dirigere il gioco c’erano i fratelli Mattesini, bravi sia a parlare che a giocare.
Perdevamo sempre. Non avevamo ruoli ben definiti, e io ero l’unico che cercava di tenere la posizione. Dopo ore di gioco con risultati quasi “tennistici”, senza tie-break, tornavamo giù per Fontanella, con qualche ginocchio sanguinante, ma con quel misto di felicità e tristezza che solo il calcio sapeva darci.