Avendo un fratello più grande di circa quattro anni, ero spesso la cavia dei suoi esperimenti: conduttore di energia a 125 volt, con due fili infilati nella presa e inseriti in un bicchiere con acqua e sale, dai quali partivano altri due fili che tenevo in una mano mentre nell’altra stringevo una lampadina… che però non si accese mai. Oppure paracadutista, lanciato con un ombrello dal secondo piano in un orto appena vangato. Certo, ero una piuma, uno sgricciolo, ma felice di essere parte dei giochi dei più grandi.
I miei denti da latte iniziarono a vacillare proprio quando mio fratello era già un membro della “banda”, composta da Renato, Piero e i fratelli di Mario, ragazzi di qualche anno più grandi. Quando questi ultimi decisero di abbandonare la banda, portarono via con sé la cassa comune, che ammontava a 60 lire. Gli altri componenti, che ogni mese versavano una lira di carta moneta, si trovarono improvvisamente a corto di fondi. E io, guarda caso, avevo ancora alcuni denti da latte…
Legarono un filo bianco da cucito alla base di un dente e lo annodarono alla maniglia della porta. Due mi tenevano fermo tappandomi gli occhi, mentre un altro sferrava un calcio alla porta… Il primo dente partì senza troppo dolore, ma il secondo, che era ancora ben saldo, mi fece urlare. Uscì un sacco di sangue, che cercarono di tamponare con un fazzoletto. I due denti furono poi messi sotto un bicchiere, sopra il mobile della cucina, accanto alla radio “Geloso”, in attesa che mio padre, al suo ritorno nel fine settimana, li trasformasse in almeno due banconote da due lire.
Purtroppo, trovarono il fazzoletto intriso di sangue e notarono la mia guancia leggermente gonfia. Messo alle strette, confessai. La punizione arrivò inesorabile: prendemmo entrambi una sculacciata di quelle che lasciano il segno. Da quel giorno non mi fecero più partecipare ai loro giochi. Solo dopo due anni ottenni un ruolo di prestigio: sentinella del fortino, al di qua del Castro.