Il busto del Buratto, la cantina del nonno e il coraggio di un bambino con un moccolo in mano: frammenti di vita aretina tra Santo Spirito e Mugliano
Nato in Santo Spirito, ma più legato ad Arezzo che al rione. L’identità rionale l’ho sempre sentita meno della mia appartenenza al Comune, alla città nel suo insieme, all’aretinità vera, quella fatta di storie, gesti, parole, sapori e paure d’infanzia.
Da piccolo, in campagna, i frigoriferi non esistevano. Il primo lo conobbi grazie a un amico di Arezzo, che abitava proprio di fronte a casa mia: un Fiat, modernissimo per l’epoca. A casa nostra, invece, c’era la ziraia, una sorta di cantina scavata nella terra, fresca, buia, senza finestre. Dentro, mio nonno Pietro — ex fattore a Mugliano — conservava l’olio nei grandi ziri di coccio, il vino infiascato, i pomodori, i meloni e persino i cocomeri.
Durante la guerra, nei giorni della ritirata tedesca, mio nonno portò via con sé una reliquia preziosa: il busto del Buratto del Saracino, quello che si usava nella frazione che lui amministrava, dove la giostra si svolgeva da tempo. Quel busto finì proprio nella ziraia, appoggiato in un angolo, con il lungo perno di ferro conficcato a terra. E sembrava davvero fare la guardia a quel piccolo regno sotterraneo.
Da bambino, scendevo due scalini per entrare, troppo basso per arrivare all’interruttore di porcellana con la chiavetta a orecchiette. Di giorno, c’era luce a sufficienza, ma la sera… era tutta un’altra storia. Il compito di andare a prendere il vino o le conserve toccava sempre a me, il più piccolo. E con me portavo una candela, un moccolo, e qualche fiammifero da cucina.
Camminavo piano, col dito infilato nel ricciolo del porta candela, proteggendo la fiammella con la mano. Entravo nel loggiato, poi giù nella ziraia. Se si spegneva la candela, erano guai: l’umidità impediva di riaccenderla, e dovevo cercare tutto a tastoni, affidandomi alla memoria dei luoghi. In quel buio, con la luce tremolante, il Buratto mi scrutava. Occhi neri, grandi, severi. Per farmi coraggio gli parlavo: “Quanti pomodori devo prendere? Hai visto se è entrato un topo? Il ragnone è sempre lì?”.
Così, nel dialogo col Buratto, trovavo la forza. Forse è per questo che non sono mai diventato un vero “rionista”. Perché la mia Arezzo è fatta più di queste storie che di bandiere.