È successo davvero: un testo sull’incuria del Parco Ducci pubblicato così com’è, con tanto di frase iniziale “ChatGPT ha detto”. Applausi. Siamo ufficialmente entrati nell’era in cui perfino le denunce sul degrado urbano vengono delegate a un’intelligenza artificiale. E il bello? Nessuno si è degnato di leggerlo prima di premere “pubblica”. Cioè, se al posto di “panchine sommerse dalle erbacce” ci fosse stato scritto “maledetti i piccioni e chi li guarda”, sarebbe passato lo stesso.
Siamo al capolinea del pensiero critico: non solo ci affidiamo a una macchina per dire che le aiuole fanno schifo, ma nemmeno ci chiediamo cosa stia dicendo. È il trionfo della pigrizia travestita da efficienza digitale. D’altronde, perché preoccuparsi? Se ChatGPT scrive un pezzo, tanto vale mandarlo online senza filtri. Magari un giorno farà anche i selfie al posto nostro nei parchi abbandonati.
Intanto, Parco Ducci sembra uscito da un documentario post-apocalittico. Un tempo oasi verde per famiglie, nonni, bambini e scoiattoli (forse in fuga da tempo), oggi è la sagra dell’abbandono: panchine inghiottite dalla giungla urbana, marciapiedi che sembrano test di sopravvivenza, rifiuti travestiti da elementi decorativi. Ma tranquilli, l’intelligenza artificiale ha già preso nota. L’amministrazione invece? Forse sta aspettando una notifica.
Ci sarebbe quasi da ridere, se non fosse tragico. Perché il punto non è solo il degrado del parco, ma quello del nostro sguardo. Dov’è finita la capacità di indignarsi davvero, di prendersi la briga di scrivere due righe con la propria testa? Se anche la rabbia è diventata automatizzata, allora abbiamo un problema più grosso dell’erbaccia.
E allora no, caro ChatGPT, oggi ti lasciamo riposare. La prossima denuncia la facciamo noi, con nome, cognome e magari un po’ di ironia amara. Perché a furia di lasciare tutto alle macchine, rischiamo che pure l’indignazione ci venga disinstallata.